Viaggio in India: Gozzano

08.07.2025

Verso la cruna del mondo: la filosofia del nulla in viaggio



Nel suo Verso la cruna del mondo, Guido Gozzano ci consegna un racconto di viaggio che è, in fondo, un pellegrinaggio verso la dissoluzione dell’io, un confronto serrato con la morte e la fragilità del corpo. Gozzano viaggia per curarsi, e questo elemento autobiografico dona al testo una struttura speculare: l’Occidente malato che cerca guarigione nell’Oriente millenario, ma trovandovi, più che salute, una radicale riconfigurazione dell’esistenza. Il suo viaggio è fisico e metafisico, geografico e insieme esistenziale.

Isola di Elefantia: il nulla incarnato

Tra templi antichi e statue falliche, sull’isola di Elefantia Gozzano percepisce con forza il legame tra la religione e il vuoto: una spiritualità che ha fatto propria l’idea della morte e del nulla, e che tuttavia la celebra attraverso simboli corporei e potenti, talvolta disturbanti. L’idolo è virile, la divinità è carne; eppure, tutto porta a una dissoluzione. Lo scrittore coglie una tensione stridente – quasi comica e tragica – tra il sesso e il nulla, tra l’adorazione del membro virile e l’accettazione serena della fine: «meglio non essere mai nati», ma se si è nati, conviene vivere con grazia.

Gozzano e l’India dell’ordine britannico

Non mancano nel libro giudizi critici su alcune città indiane, definite "poco vivibili", "inospitali", "inquinate", ma Gozzano non è un semplice colonialista: nota con distacco come Bombay appaia più ordinata grazie all’intervento inglese, pur mantenendo lo sguardo critico di chi è immerso nella complessità. È un osservatore, non un ideologo. La modernità occidentale, con le sue ferrovie e il cinema, penetra nel subcontinente senza cancellare l'antica energia dei luoghi, ma creando un contrasto pacchiano, una sovrapposizione mal riuscita di mondi che non si parlano.

Torri del silenzio: la materia in circolo

La visione delle torri del silenzio, dove i cadaveri parsi vengono dati in pasto agli avvoltoi, colpisce profondamente Gozzano. Il corpo, anziché essere tumulato, viene restituito immediatamente alla natura. La scena, descritta con lucido stupore, diventa occasione per riflettere sulla distanza tra il culto dell’io occidentale e l’impersonalità orientale: il distacco del buddhista, l’assenza del lutto, l’essere pronti al trapasso due volte al giorno

 «Perché molti di costoro non sono fachiri, né santi, né pellegrini. Sono uomini di venti, di trent’anni, vigorosi e sani; artigiani, mercanti, soldati, operai che risaliranno le scalee per riprendere la lotta consueta, che rientreranno nella vita, ma che ogni giorno, due volte al giorno, s’êndono nella morte, s’immergono nel fiume a colloquio con la propria anima, per prepararsi quotidianamente al trapasso inevitabile. Odioso confronto con i nostri uomini, con i nostri borghesi occidentali che ignorano ogni cosa dell’anima, deridono ogni scienza dello spirito, bestemmiamo Dio, ostentando un ateismo fatto più odioso dal vigliacco ravvedimento dell’ultim’ora.»


La folla che viene a morire in salute

Nella pagina citata e in altre simili, Gozzano descrive un’umanità sofferente, fisicamente devastata, ma presente sulle rive del Gange in una specie di ultimo convegno con la vita. La malattia non è nascosta: piaghe, tumori, bronzi scoloriti, elefantiasi. Eppure questa visione cruda è accompagnata da un senso di accettazione. Questi uomini e donne non chiedono pietà né miracoli: chiedono di “morire in salute”, come dice il rematore.

Madura e il cristianesimo come avatar

Arrivato a Madura, Gozzano incontra un prete cristiano che gli racconta come gli indiani abbiano accettato Cristo fin dai tempi di San Tommaso, non come unico Dio, ma come avatar degli altri. In questa riflessione, Gozzano coglie la differenza tra l’inclusività delle religioni orientali e l’esclusività di quelle occidentali: qui ogni divinità ha diritto d’adorazione, anche nel corpo, anche nella carne. In Europa, invece, tutto è sublimato, casta, negato. La Vergine è vergine.

Il tempio e il verme

La scena culminante della visita al tempio è descritta con un’immagine potente: lo scrittore si sente simile a un verme che striscia nella carne, nella roccia, nel buio. L’uomo è materia. Anche l’arte del racconto, il linguaggio, si spoglia della pretesa di eternità. Gozzano non costruisce più monumenti con le parole, ma li lascia andare – umanamente, dolcemente – alla deriva, come i cadaveri nel fiume.

Contro il dimenticare: la scrittura come nostalgia

C’è in Gozzano una malinconia non polemica, un senso della nostalgia che si oppone al cinismo. La scrittura stessa, nella sua descrizione di dettagli, colori, oggetti, odori, è uno strumento contro il dimenticare. L’autore si abbandona al ricordo, non per rifugiarsi nel passato, ma per rifiutare l’amnesia dell’Occidente moderno.


Gozzano e l’oriente come specchio

Verso la cruna del mondo è un libro sulla morte, sì, ma anche sul nostro rapporto con la materia, il linguaggio e la fede. Gozzano ci mostra una civiltà in cui tutto è incluso, persino l’orrido, persino il nulla. Non cerca risposte, ma osserva. E in questo sguardo privo di condanna e di celebrazione, emerge una filosofia fragile ma sincera: accettare la vita e la morte come parte dello stesso ciclo, con ironia e con umiltà. Come chi si immerge due volte al giorno per parlare con la propria anima, in silenzio, senza fretta.


Il vivaio del Buon Dio


I signori dell'India non sono gli indiani. E non sono nemmeno gli inglesi. I veri signori dell'India sono gli animali.

I corvi, anzitutto: è la prima impressione visiva e auditiva che si ha appena sbarcati in una delle grandi capitali — Bombay, Calcutta, Madras, Rangoon. Incredibilmente numerosi, più dei colombi a Venezia, brulicano ovunque: tra le balle di cotone e spezie nel porto, nelle vie alberate di cocchi, nelle grandi piazze moderne. Si dissetano, si bagnano starnazzando nelle vasche monumentali, orlano di nerazzurro capitelli e guglie della frastagliata architettura gotico-indiana.


Se gli avvoltoi sono i necrofori, i corvi sono gli spazzini dell’Impero. E anche i ladri, impudenti e impuniti, poiché nessun poliziotto li disturba.


Il viaggiatore, giunto nella stanza linda di un hotel tropicale, rimane stupito dagli avvisi alle pareti:

"Guardarsi dai corvi. Chiudere le grate prima di uscire. Non abbandonare oggetti di valore."

Pare incredibile, ma ci si ricrede subito.


Sono le quindici, l’ora della siesta. La città è immobile; il sole avvampa sulla piazza vuota, tra i palmizi tremuli, il monumento alla Regina Vittoria, la cattedrale gotica. Nelle stanze, gli europei dormono sotto il refrigerio del ventilatore. Silenzio. Solo un suono resta, assiduo: il gracidìo dei corvi. Non disturba, anzi sottolinea il silenzio. Sembra un memento funebre:

"Ricordati! Morirai!"

Sì, lo sappiamo, bestie dannate. E intanto si dorme.


Poi, ecco un rumore. Attraverso le ciglia socchiuse si vede uno spettacolo curioso: un corvo scosta la tenda, entra, sosta sul davanzale, esplora, balza leggero sul pavimento. Un altro lo imita, poi un terzo, un quarto. Sono piccoli corvi (corvus splendens?), nerazzurri, con penne bianche alle ali.

Saltellano cauti, buffi, uno in vedetta, uno claudicante. Sembrano davvero personaggi usciti da una favola di Esopo o La Fontaine. Non sono attratti dal cibo, ma dalla curiosità e dal furto. Ammirano le bretelle appese alla sedia, le tirano con il becco, fanno cadere i calzoni e li trascinano via.


Lanciate una ciabatta! Un libro! Troppo tardi: si alzano in volo, si posano sull’asta della zanzariera. Aprite le finestre, li minacciate con l’ombrello! Ma non si muovono. Sanno che non siete bramini né buddhisti, e quindi pericolosi. Allora chiamate il boy.

Il boy sorride, vi prega di posare l’ombrello, batte le mani: i corvi lo riconoscono, l’uomo che non uccide, e se ne vanno in fila, silenziosi.

Tutti gli animali, in India, convivono con l’uomo con una familiarità impressionante.

Passeri, tortore, scoiattoli striati: scendono fiduciosi nei cortili, mangiano dalle mani.

Ma nei corvi e nelle scimmie questa familiarità si fa arroganza.

Sembrano convinti che Bombay e Calcutta siano state edificate per loro, e l’uomo un intruso da tollerare a malincuore.


E l’uomo li tollera, in fondo. I corvi mondano le vie prima che la sporcizia si decomponga nel sole. Offrono, col tempo, scene impagabili di psicologia animale.

Appaiono accattoni nei giardini pubblici, attenti a non avvicinarsi troppo, ma pronti a rubare un biscotto. Intuiscono chi li teme e chi li ignora.

Con gli indigeni, però, il comportamento cambia: diventano despoti.

Nelle città native entrano nelle case come se fossero le loro, certi del patto millenario: “non essere uccisi.”


Scenette adorabili:

Una bimba ignuda, appena uscita da una bottega con una ciotola di riso, viene assalita da venti corvi. Lei, senza paura, si piega sul cibo, proteggendolo col corpo. La madre arriva, li scaccia, getta una manciata di riso come tributo. Entrambe rientrano serene, come dopo uno scherzo di amici un po’ invadenti.

Altre volte la vittima è una scimmia: ha rubato una noce di cocco, la apre, e nel momento in cui porta alla bocca il gariglio, i corvi glielo strappano. Lei resta a mani vuote, ringhiante.

Le scimmie contendono ai corvi il dominio delle città, ma non infestano i quartieri europei. Vivono nei sobborghi, nei templi in rovina.

I coloni le detestano più dei corvi: distruttive, curiose, dispettose. In una notte possono scoperchiare una villa, passando le tegole da una mano all’altra come in un gioco.

Saccheggiano giardini, svuotano mercati, costringendo i fruttivendoli a “pagare il pizzo”.

A sera, le vie pullulano di loro: code penzoloni dalle grondaie, musi protesi all’apparire di ogni rumore.

È infinita la varietà di creature tollerate o venerate in questo vivaio del Buon Dio.

Sulle vetrate degli hotel corrono certe lucertole gibbose, ruvide, dalle zampe a ventosa: l’albergatore vi prega di non disturbarle.

I passeri bengalini, rossi, spruzzolati d’argento, invadono le verande.

Le manguste — simili a faine fulve — vigilano, immuni, contro l’ospite più temibile: il cobra dagli occhiali, la naja tripudians.


E infine, le creature enormi, le più simpatiche: gli elefanti.

Completano il paesaggio indiano. Lavoratori instancabili, intelligenti, buoni.

Ci sono gli elefanti di lusso, destinati ai cortei, dipinti e adornati come vecchi cuoi di Cordova.

E quelli da lavoro, ancora più intelligenti, vecchissimi alcuni, compagni silenziosi di ogni attività umana.

Familiari, impudenti, poetici, ladri, santi: gli animali in India non sono un complemento.

Sono protagonisti, padroni benevoli di un mondo che — forse — Dio ha creato soprattutto per loro.

Ed il commento di Gozzano davanti ad un ospedale di animali, dove tutti gli animali malati feriti venivano tenuti vivi e li eri in attesa della morte come una sorte di precursore dei moderni santuari vegani è questo:

Una parodia lacrimevole dell'Arca salvatrice. La nostra pietà occidentale insorge, domanda sdegnata perché non si dà a quelle povere bestie il colpo di grazia, addormentandole con una doppia dose di cloroformio. Perché non si ha diritto di spezzare una vita, qualunque essa sia.


Ma vivere a che?


Per soffrire.


E soffrire a che?


Per divenire, per acerescersi, per allontanarsi sempre più dalla materia attraverso il peso della materia, per spegnere, nella ruota d'infinite incarnazioni, il desiderio di esistere: questo peccato che ci condanna a ritornare in vita.


E se fosse vero? Se veramente noi non fossimo il re dell'Universo come la nostra religione ci promette? Se veramente il verme, il cane, l'uomo non fossero che graduazioni varie dello spirito, della stessa forza immane che palpita ovunque, esitando incerta verso una mèta che ignoriamo e che non è forse se non la pace dell'Increato?


Retorica elementare, fatta odiosa da tutti i trattatelli teosofici, ma che, esposta con brevi parole da questo guardiano dal volto ascetico come un San Francesco di bronzo, non ci può far sorridere come il nostro orgoglio occidentale vorrebbe.






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