Un impiegato: racconto breve.
Il mio collega si chiamava Angelo. Era un ragazzo pugliese venuto a Milano per lavorare.
Lo conobbi lentamente durante la mia esperienza di lavoro presso una grande azienda internazionale. Inizialmente i suoi modi da "ragazzo di giù" mi portarono a stargli distante. Mentre lui seguiva ostinatamente il gruppo di tutti gli altri colleghi elemosinando per cameratismo un pranzo insieme o una serata il venerdì, io ricercavo più la solitudine.
Mi ricordo i suoi primi di sguardi di ammirazione quando, essendo stato spostato al piano superiore dato che mi ero mostrato fin da subito come il più indipendente, scendevo giù, poco dopo le 18:00 a salutare gli altri che rimanevano in ufficio fino a tardi .
"Tu fai bene" mi ripeteva nei nostri pochi dialoghi di quel tempo; e questa frase, presa un pò alla leggera inizialmente, diventò una costante nei nostri discorsi.
Io mi sentivo meglio di lui, perché prendevo alla leggera quel lavoro alienante da revisore, perché ero un purosangue in mezzo a loro, che si lamentavano senza sosta della noia, alienazione e stupidità di quella mansione che acriticamente continuavano a fare. Una cosa ancora più grave, che non riuscivo proprio a tollerare di loro, era quando facevano sforare il lavoro nella vita privata a causa di un finto rapporto di amicizia col "capo" (uno spregevole e maleducato campano) che approfittava della disponibilità di tutti per imporre un lavoro senza orari e senza week end.
Poi, dopo i primi mesi, il team aumentò ed io fui spostato in una nuova stanza con Angelo ed altri.
Qui i nostri due mondi si incontrarono. Lui si lamentava di come stava sprecando la sua carriera ed io invece, di come fosse stupido quel lavoro e di come fosse urgente per noi cambiare. Parlavo con la forza interiore di chi non ha niente da perdere perché io avevo, in parte, le spalle coperte vivendo già a Milano coi miei mentre lui vessava in una situazione critica, vivendo in un salatissimo posto letto a Monza, senza privacy e lontano dalla famiglia (la quale avrebbe sicuramente preso come fallimento generazionale il ritorno del figlio giù in Puglia).
Senza ragazza, amici ne famiglia il povero Angelo passava distrattamente il suo tempo tra qualche aperitivo, la noia e giornate di lavoro infinite.
" Wei Angelo hai mandato i cv?" gli chiedevo negli ultimi tempi. Lui mi guardava con sguardo fisso rispondendomi così "Non ho tempo per cercare lavoro...esco dall'ufficio alle 20...torno a casa con calma...con calma perché non è un posto mio...ci sono i coinquilini...non ho privacy...quindi preferisco perdere tempo in giro...
Con sta situazione come faccio a prepararmi ai colloqui?".
A me dispiaceva molto sentirlo parlare così.
Tra una pratica e l'altra, specialmente nei giorni senza lavoro gli elencavo le opportunità di lavoro che il mondo là fuori offriva. Gli raccontavo di cosa facevano i miei compagni di università: chi l'analista, chi il consulente, chi il contabile. Poi gli chiedevo cosa piacesse fare a lui. Angelo mi diceva il revisore.
"Il revisore?" gli chiedevo ogni volta stranito..."Ma Angelo è un lavoro noioso...e poi è simile a questo che stiamo facendo...anche se molto più serio dato che si analizzano proprio i bilanci e che sicuramente poi, una volta specializzato, non avrai mai più il problema di non trovare lavoro" Lui annuiva pensando che solo l'occuparsi fosse l'importante.
Ora che ci penso,
queste discussioni erano le uniche a darci un anelito di libertà in quel posto. Gli altri colleghi invece vivevano di gossip, sorridendosi davanti e parlandosi male alle spalle; competevano pure fra loro per apparire bravi agli occhi bui e vacui del "responsabile".
Ogni tanto Angelo qualche colloquio riusciva pure a farlo ma, stanco com'era, preformava male (L'inglese poi, lo penalizzava sempre).
"Stiamo buttano via la nostra vita, Angelo" gli dicevo gli ultimi tempi. "Fuori potremo pure fare i fighi che lavorano per un'importante società...ma dentro, solo noi sappiamo quello che facciamo: riempire un foglio Excel". Poi lo aggiornavo di tutti i miei prossimi colloqui.
Gli ultimi tempi furono i più duri.
Arrivarono nuovi colleghi. Altri se ne andarono.
Angelo fu spostato in un altra stanza. I suoi rapporti con i colleghi storici si stavano incrinando. Il poco lavoro che arrivava dava tempo al gruppo di controllare le minuzie degli altri e spararsi contro a vicenda.
La buona notizia per lui fu che le nuove arrivate erano tutte donne. Si appiccicò a loro per provarci. L'assenza di una vicinanza intima, di gesti d'affetto e carezze gli pesava molto. Solo che i rapporti che si instaurano sul luogo di lavoro, specie in quello, nascono già marci, viziati da un sottostante ombroso di qualche lontana ed oscura solidarietà forzata tra prigionieri del tempo sottratto.
Mi feriva vederlo così; che, già distrutto dal lavoro, sperava nella clemenza di qualche femmina.
Viveva un esistenza in cui tutte le cose erano fuori da ogni suo possibile atto di volontà. Il mondo materiale gli si gettava dinnanzi opprimendolo. Niente di ciò che sperava succedeva...se non quando la sua squadra del cuore vinse il campionato.
In primavera, perfettamente in linea con i miei piani, lo salutai: avevo trovato un altro posto di lavoro che mi piaceva molto.
Lui sapeva che prima o poi sarebbe arrivato quel momento. E sapeva che me ne sarei andato così, per primo e senza avvisare.
Perché i leoni non hanno riguardi per gli uomini; ed il destino che li guida gli è perpendicolare.
Così successe e lui rimase solo.
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Dopo qualche mese Angelo mi scrisse.
Mi diceva che aveva cambiato lavoro. Ora faceva il revisore contabile...proprio dei dati di bilancio! Appena sentii la novità fui felice. Aveva finalmente trovato la forza per abbandonare quel posto marcio. Ma subito mi scese l'entusiasmo. Mi diceva che si era trovato male, che avrebbe abbandonato il nuovo posto i lavoro e che non aveva più entrate per mantenersi a Milano.
Soffrii molto per quella notizia, mi spiaceva così tanto per quel suo fallimento. Decisi di rincontrarlo.
Quando lo vidi era triste e perso. Mi diceva di come si fosse trovato male coi colleghi. Non lo avevano accolto tra loro. E quel contesto di isolamento pure sul lavoro lo distruggeva. Non parlare con nessuno, non farlo ne a casa ne a lavoro era per lui insostenibile. Almeno nell'altro posto poteva confrontarsi con gli altri ragazzi che più o meno erano nella sua stessa situazione. Così aveva già lasciato il suo tanto agognato posto da revisore e si stava preparando a lasciare pure Milano.
Mi incontrò però principalmente per chiedermi un consiglio: aveva sentito che se voleva poteva tornare sul primo luogo di lavoro...gliel'aveva detto il responsabile, mentre torto e grifagno trangugiava una cotoletta di vitello fritta (il suo piatto preferito), con questa frase: "Angelo può tornare".
Io gli dissi subito di no! Di ricordarsi come lo buttava giù quell'ambiente, l'alienazione del lavoro, la falsità dei rapporti che si era creata in quell'ambiente e il peso che il capo metteva su tutti noi.
Lo salutai così, dicendogli che gli sarebbe convenuto riposarsi un po' per poi ripartire carico, finalmente con lo scopo di realizzarsi professionalmente.
Però mi sembrava stanco e perso.
Infatti, l'ultima frase che mi disse fu: "Il mio tempo qui è finito".