FIORE MIO - recensione documentario di Cognetti

28.11.2024

Un’opera peculiare ha fatto capolino nei cinema italiani, per soli tre giorni. “Un evento speciale”, ci ha detto la cassiera, quasi a giustificare l’assenza del consueto sconto del mercoledì.
Stiamo parlando di "Fiore mio" di Paolo Cognetti


Protagonista assoluta del documentario non è un personaggio umano, ma il Monte Rosa, il “monte di ghiaccio”. Cognetti ci guida attraverso rifugi, sentieri, panorami mozzafiato, accompagnando il tutto con l’intensa colonna sonora di Vasco Brondi e con dialoghi di chi vive il Monte Rosa

Proprio questi dialoghi rappresentano un nodo problematico. Presentati in una forma quasi casuale, priva di trama e apparentemente scollegata, rischiano di perdere quella forza narrativa che li avrebbe resi memorabili. Forse, Cognetti ha voluto lasciare spazio alla montagna stessa, evitando di mettere troppo del proprio ego. Eppure, gli abitanti del Monte Rosa raccontano la loro vita con semplicità, come tra amici al tavolo di un rifugio. Questo approccio, pur rispettabile e autentico, talvolta distoglie dal senso profondo del film: la montagna come specchio dell’esistenza umana e dalle riflessioni piu profonde ed esistenziali che uno spettatore si aspettava (soprattutto per la presenza di Vasco Brondi famoso per testi abbastanza elaborati).

Ma andiamo al nocciolo di quello che volevo dirvi:

 

La riflessione più potente che emerge da Fiore mio è la solitudine. Un’abitante dice: “Per vivere qui ci vuole spiritualità”, e un altro aggiunge: “Non sai mai se i tuoi amici torneranno la stagione prossima”.

 La montagna diventa simbolo di una scelta esistenziale: radicarsi in un luogo impervio o vagare per il mondo alla ricerca di connessioni e significati.


Cognetti, già autore de Le otto montagne, esplora ancora una volta questa dualità. Nel film emerge come l’amico che sceglie di isolarsi totalmente, vivendo in una baita tra le nevi, finisca per essere schiacciato dal peso stesso della sua scelta. Costruire una casa in un luogo inospitale significa, forse, separarsi dal mondo, ma anche confrontarsi con il proprio essere più autentico.
La solitudine della montagna non è solo privazione: è uno spazio di introspezione. Heidegger parlava dell’esserci come presenza autentica, e in questo isolamento, in questa distanza dagli affanni moderni, si possono riscoprire legami più profondi. La montagna ci insegna che non conta il numero delle relazioni, ma la loro qualità (che è la lezione piu importante che ci sta dando il mondo moderno) e che vagare come anime belle nel velo di maya del consumo, turismo e rapporti occasionali ci fa distrarre troppo dai problemi nostri e del mondo. E forse non c’è nulla di più essenziale che coltivare un’amicizia profonda con noi stessi e con chi ci sta vicino.


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