LA RAGAZZA NEL BOSCO - Narrativa di crescita spirituale

18.12.2021


Erano giorni ottembrini

La natura, assorbita e bagnatasi dell'estate, giunta al culmine della sua vitalità, imbevutasi di tutto il sole ed il calore estivo, principiava a tramontare in un tramonto meraviglioso, stupendo, rosso, intensamente rosso come i chicchi del melograno, o come alcune foglie degli alberi, o come un'arancia rossa. Tutto il mondo e tutto l'universo trepidavano per la bellezza dell'autunno, i frutti erano così rigogliosi, vividi, ma allo stesso tempo maturi e pronti a marcire, a decomporsi, a morire, diremmo noi. Pronti a morire per dar nuova vita. Gli animali, pacifici e quieti, si preparavano al letargo e ad entrare in qualche caldo grembo della terra. Gli uomini, invece, continuavano la loro vita di sempre, anzi la loro vita diventava ancora più frenetica ed impegnativa, molti riprendevano le loro occupazioni dopo le ferie; erano così occupati e così di fretta che non si accorsero, anche quell'anno, per l'ennesimo anno di fila, dello spettacolo che vi era intorno a loro; erano così distratti ed incentrati su se stessi, che non si accorsero di che bel sembiante avesse assunto la loro casa. D'altronde, molti uomini non ne avevano proprio idea della meraviglia che li circondava, perché vivevano in quegli agglomerati di asfalto e cemento armato chiamati città, metropoli, megalopoli. In effetti, le metropoli erano colme di uomini, brulicanti come formicai corrotti, mentre nella natura non vi erano uomini. Gli uomini, inconsapevoli di tutto, stavano nella loro città, dove i giorni valgono quanto quelli sul calendario, da cancellare con una x quando son passati, dove la vita si misura e si calcola, si pianifica e si progetta, si riempie di schemi e di obiettivi, di narrazioni e di barriere. E tutti gli altri animali, quei pochi che erano rimasti liberi e che erano scampati dalle grinfie dell'uomo e dall'inferno degli allevamenti , della violenza e dello sfruttamento umani, temevano quei posti freddi, dove la terra era dura e sporca, dove il cielo c'era solo a pezzi e dove l'aria e l'acqua erano torbide come le menti degli uomini. Solo pochi animali osavano avventurarsi ancora nelle città, come gli insetti, ed i colombi, che spesso finivano schiacciati dalle macchine e dimenticati sull'asfalto delle città.

Ecco che fra questi uomini ve ne era uno, uno come tutti. Si chiamava Marco. Camminava per le vie della città, in basso, sotto l'ombra dei grattacieli; in fondo ogni città, per quanto si spinga in alto verso il cielo, deve sempre avere un fondo, una parte bassa, una suburra; e quel basso è l'unica parte in cui gli uomini possono camminare, e quel basso è l'unica parte influenzata, rivestita dall'influsso degli uomini. Marco infatti camminava rasentando un muro pregno e colmo di graffiti, che parevano volessero urlare in mezzo al silenzio asettico della città; quei graffiti stavano lì, come codici di un linguaggio stravagante, come volessero richiamare la libertà; erano simboli di ribellione, di libertà, erano la libertà che cercava i modi di emergere anche in quei luoghi di servitù che erano le città; ma la libertà emergeva muta, ai bordi delle strade, sporcata dallo smog. Marco si dirigeva verso la sua postazione di lavoro, come tutti i giorni; giorni pallidi, emaciati, di poca sostanza, giorni quantificabili, misurabili, spendibili, tramutabili in denaro. E, come tutti i giorni, si lasciava scorrere il tempo addosso, quel tempo così piatto, così domato, così livellato, che scorreva veloce, vacuo e senza caratteristiche. Marco non aveva dubbi, non aveva particolari richiami, non desiderava altro da quella vita interscambiabile e piana. D'altronde, non sapeva cosa fosse l'altro; si può dire che dentro, lui, era vuoto. Era vuoto, ma di un vuoto tutto particolare. Non era quel tipo di vuoto che rassomiglia ad uno specchio, che riflette e si riempie del mondo e della sua meraviglia; non era quel vuoto che ha in sé però una corda ben tesa, che convibra coll'energia del mondo. No, il suo era un vuoto che poteva rassomigliare ad uno specchio, ma opaco, un vuoto a cui quella corda che risuona col mondo era stata recisa. Il suo vuoto, la sua mancanza di interesse per tutto, per la vita, erano in realtà creati dalla società, ed avevano le caratteristiche che essa gli aveva conferito. Il suo era un vuoto che era stato creato con fatica e con impegno dalla società fin da quando lui era piccolo; infatti, fin dall'infanzia, era stata oppressa la sua voglia di esplorare, la sua energia vitale, la sua meraviglia per il mondo; i genitori gli avevano inculcato pian piano il germe del potere, gli avevano detto che doveva farsi strada nella società, che quindi doveva rispettare diligentemente e in modo sottomesso i compiti che la società gli dava; ecco che le sue emozioni erano state represse, erano state rimproverate; gli era stata preclusa la possibilità di vedere il mondo, gli era stata imposta, pur se impunito, la reclusione in una cella di cinquanta metri quadri chiamata casa o monolocale, e così non aveva mai potuto vedere il mondo; soltanto, quando era piccolo , vedeva un albero dalle finestre di casa, un albero incastrato fra il cemento, le cui radici erano soffocate e schiacciate dall'asfalto e si meravigliava di quell'albero, lo osservava tutti i giorni, vedendo come continuamente cambiasse, giorno dopo giorno non fosse mai uguale, ma ora il colore delle foglie, ora le foglie che cadevano lo rinnovavano ogni momento, e lo rendevano misterioso. Poi, era andato a scuola, ed aveva imparato che nel mondo nulla è interessante, che la cultura è un qualcosa di pesante, che lo studio era un lavoro; aveva imparato l'arte della competizione, aveva imparato cosa fosse l'ansia e cosa il lavoro: infatti passava tutto il giorno seduto al banco ed a fare i compiti mentre la vita che era in lui lo pregava di correre, di giocare, di esplorare. Aveva imparato ad avere piuttosto che a essere, aveva imparato a far le cose per interesse, per un tornaconto, piuttosto che in modo disinteressato e senza voler nulla in cambio. Così, repressa tutta la sua energia vitale, uscito dalle scuole e dalle università, completamente castrato e sottomesso, aveva imboccato le strade del potere e del conformismo: aveva scelto di immolare la sua esistenza al lavoro, alla carriera, perché così gli era stato insegnato, perché così sarebbe stato giudicato buono. Era così adesso una persona nella norma, una di quelle che vive di lavoro e di audiovisivi, una di quelle senza interesse e vuote, senza volontà, pigre, indifferenti. I suoi rapporti erano piatti; soltanto gli dava fastidio quando vedeva qualcuno i cui occhi brillavano ancora di meraviglia, o quando vedeva gli zingari ridere nelle loro carovane o gli abitanti dei camper giulivi, gli dava fastidio quando vedeva qualcuno che appariva libero: la loro libertà lo urtava, lo faceva innervosire, perché lui la sua l'aveva repressa sotto montagne di costruzioni mentali, e non sopportava chi fosse ancora libero; perché loro dovevano essere liberi e lui no, perché loro potevano essere liberi e lui no, forse, pensava, perché non dovevano lavorare come lui, perché erano dei nullafacenti che vivevano alle spalle degli altri , sulle sue spalle di mulo...

Marco arrivò a lavoro, si mise nella sua postazione davanti ad un computer, e passò lì le successive dieci ore, mentre il mondo lo salutava da fuori il suo ufficio; in realtà Marco non aveva una cognizione chiara dell'esterno, perché le finestre del suo ufficio facevano apparire il mondo esterno come una monocroma campitura uniforme di color azzurro; queste finestre erano state l'ultimo investimento dell'azienda, secondo la quale ciò avrebbe aumentato la produttività dei dipendenti. Su queste dieci ore, non vi è molto da dire: numeri, dati, statistiche, caffè, nervosi, invidie fra colleghi. Ma, nonostante in quelle dieci ore non fosse successo niente, quella giornata si sarebbe rivelata la più importante nella vita di Marco. Era ormai quasi sera, erano infatti le diciannove. Marco prese il suo giacchetto alla moda, ma non troppo spinto, scese dalla torre in cui si trovava il suo posto di lavoro, e si ritrovò nella suburra, nei bassifondi, nella parte bassa della città. Si diresse, meccanicamente, per abitudine verso casa. Marco aveva la ventura di vivere ai confini della città, dove la città declina e pare tramontare, dove il cemento si scontra con l'erba. Quel giorno era come tutti gli altri, è vero, ma quel giorno Marco era più stanco del solito, il carico di lavoro era stato infatti molto pesante. Si sentiva la testa in panne, in fumo, come se il cervello avesse esaurito le sue forze e fosse stanco, tramortito. Vicino a casa sua vi era un sentiero, un sentiero sterrato, che si inoltrava in un parco, e che scompariva fra gli alberi. Marco non vi era mai andato perché quel sentiero era troppo libero, troppo selvaggio; non era il tipico parco cittadino, ben ordinato e fruibile. Ed a lui, non piaceva mai fare cose che non fossero state preparate per lui dalla società, non gli piaceva l'avventura, l'esplorazione.

Per cui, quel sentiero era rimasto finora per lui una strada morta. Ma quel giorno si sentiva sfinito, e sentiva un richiamo verso la natura, come se la natura potesse ricaricarlo e rigenerarlo. Così, seppur con un po' di riluttanza, imboccò quel sentiero. Il parco in cui si inoltrava era stupendo: gli alberi erano alti, le loro foglie avevano vividi colori, la terra era scura, nera, fertile ed era ricoperta da un'erbetta fresca e molle e da qualche fiorellino, un po' infreddolito che cercava di scaldarsi coprendosi con l'erba. I tronchi erano forti, robusti, e soltanto toccandoli si sarebbe percepita una maestosa e quieta possanza, una saggezza millenaria che avrebbe confortato il cuore. Numerosi insetti vivevano sereni e dimoravano nel bosco. Era un bosco davvero incantato, fatato, dentro vi si percepiva come qualcosa di magico. Intanto il sole stava tramontando, e proiettava deboli raggi rubicondi sulle cime degli alberi mentre lasciava sul suolo del bosco, laddove i raggi vi giungevano, gemme di una calda e calma luce, colma di tepore, non aggressiva come quella del sole estivo. Ma il cuore di Marco era chiuso a questa meraviglia, a questo mistero, e vedeva il tutto senza interesse, senza accorgersi o far caso alla sua bellezza; si sentiva separato da quel bosco, si sentiva un'entità separata che camminasse in quel bosco, come se il bosco non avesse nulla a che fare con lui, come se fosse in un museo ed il bosco fosse il reperto, o come se fosse in un parco giochi ed il bosco fosse stato costruito per lui e per il suo svago. Tuttavia, Marco continuava ad avanzare e si inoltrava sempre più nel bosco, che si andava via via infittendo. Una parte di lui sarebbe voluta indietreggiare, infastidita da questa natura non misurabile, non inquadrabile, non lottizzata e resa disponibile, fruibile. Ma vi era un'altra parte in lui che era attratta da tutto ciò. Era una parte ormai sconosciuta a Marco, che non parlava ormai da anni, o che tutt'al più sussurrava e mormorava sommessa, ma con una voce così flebile che era difficile da percepire e che anche quando veniva percepita non riceveva che rimproveri e repressione. Questa parte era potentemente, seppur sommessamente attratta, dal mistero e dalla magia del bosco; e Marco sentiva strisciare sotterraneo in lui un senso di meraviglia, ma come questo cercava di affiorare, lui lo reprimeva. Intanto intorno a lui vi era un praticello fresco e molle, dei piccoli cespuglietti di un bel verde scuro, ed uno stagnetto, di un blu argentato, un acquitrino piccolo, ma che pareva essere profondissimo e pareva contenere in sé i più grandi segreti e le più profonde saggezze. Colto da un senso di stanchezza e come sfinito dal tentativo di reprimere lo stupore in lui, come sopraffatto da tutta l'imponderabilità ed il mistero del bosco, si stese su quel prato, gesto del tutto inconsueto per lui. Un po' d'acqua trapassò la sua camicia da lavoro, che pareva inappropriata in quel luogo, che pareva tutt'al più una barriera per proteggersi dagli influssi della natura, e fresca gli bagnò la pelle. Presto un caro sonno lo avvolse fra le sue braccia.

Sognò. Sognò profondamente, ancestralmente; il suo sogno non era fatto di immagini definite, ma era come un caos primigenio che lo attraversava; era come se le forze primordiali del mondo lo trapassassero e lo scuotessero; il suo sogno era fatto di battiti di cuore, di emozioni antiche, di miscugli di immagini, di suoni flebilissimi e poi fortissimi, di puzze e di profumi dolcissimi, di fami, di inedie, di sazietà, di seti e di refrigeri e di fonti di urne fresche e di ristori, di dolori e piaceri, di fatiche stremanti e di ozi. In quei sogni era come se l'intera esistenza lo penetrasse e lo facesse sobbalzare, era come se un muro del suo cuore fosse stato sfondato ed entrasse ed erompesse da esso una cascata di vita. Era come se forze universali e misteriose, forze irrazionali e inconsce e l' energia vitale lo pervadessero. Quando riemerse da questo sonno, un sonno profondissimo, era ancora in parte inconscio, non risiedeva ancora nella sua mente razionale; i suoi pensieri scorrevano nella sua mente, senza il suo controllo razionale. Aprì gli occhi, vide le fronde degli alberi scure sotto il cielo. Li riaprì e vide una ragazza, confusamente vide come la ragazza gli si avvicinava e gli chiedeva qualcosa; lui ancora non riusciva a dare un significato a quelle parole, ma ne percepiva solo il suono, e le sensazioni che derivavano da esso; ne sentiva la melodia, che gli muoveva il cuore come il plettro fa con le corde di una chitarra. Guardava il volto della ragazza e gli pareva bellissimo, gli pareva che quella ragazza fosse un angelo, ed un sorriso beato apparve sulle sue labbra. Poi si svegliò completamente.

"ciao, è la prima volta che ti vedo qua" disse la ragazza

"In effetti, è la prima volta che mi avventuro in questo posto"

Marco guardò la ragazza. Aveva capelli neri, uno sguardo magro e candido. Ma soprattutto guardò gli occhi. Era come se in quegli occhi vi fosse una profondità, era come se il nero di quegli occhi fosse un lago notturno nel quale ci si potesse immergere, era come fossero un abisso, un abisso marino ed un abisso di senso; vi era in quegli occhi come una languidezza, una profonda liquidità, una liquidità infuocata, dove vi fosse una fiammella, una luce, una sorgente. Guardando gli occhi della ragazza, vedeva questa luce, questa sorgente di luce, questo spiraglio di luce che pareva provenire da una fonte luminosissima; il suo cuore si riempiva di stupore e di meraviglia, e le resistenze dentro di lui andavano via via crollando sotto la potenza di quelle emozioni. Un profondo e gioioso lume dimorava in quegli occhi, una luce vi era nel nero scuro, nel carbone di quegli occhi. Pareva quasi che si potesse bere da quegli occhi, che si potesse bere la luce liquida di quegli occhi, che ci si potesse abbeverare della meraviglia e del mistero e della bellezza dell'universo.

"Io invece sto qua sempre"

La ragazza era magra, esile, fragile. Anche nei suoi movimenti pareva fragile, vulnerabile. Dai suoi movimenti si percepiva come una innocente timidezza ed un bisogno di amore. Pareva un cervo smagrito che ricerchi del cibo ed un rifugio. Ed in lei si percepiva come una innocenza, che faceva in modo che il suo essere trasparisse genuinamente, senza barriere, nei suoi aspetti più intimi e reconditi.

"e perché stai sempre qua?"

"perché non mi piace l'altro mondo, a me piace questo mondo..."

"L'altro mondo?"

"Sì"

"Cos'è l'altro mondo?"

"Quello da dove vieni te, quello fatto di strade, macchine e palazzi. La metropoli"

"e perché non ti piace?"

"Perché è lontano dalla vita e dalla sua meraviglia; perché è basato sul potere, sul dominio, sul tentativo di rendere schiavi gli altri in tutti i modi con le emozioni, con i soldi, col lavoro". La ragazza guardava ogni tanto Marco in faccia, poi subito abbassava i suoi bellissimi occhi verso terra "lì le persone sono schiave, non vivono, non convibrano con il mondo, vivono di illusioni; si dimenticano della vita. Si separano dalla natura, e la vedono come esterna e senza legami con loro ed allora la cominciano a sfruttare e le fanno violenza"

Marco fu molto turbato da queste parole, che calarono in lui come bombe pronte ad esplodere ed a distruggere le sue credenze.

"Va bene, ora io vado, se domani passi ci possiamo incontrare" disse la ragazza e si inoltrò fra gli alberi.

Marco uscì dal bosco, senza pensieri razionali, consci. Tuttavia, dentro di lui, vi era un fermento di pensieri, emozioni inconsci, di forze dimenticate che si cominciavano a muovere, di energia che tornava a circolare dentro di lui. Tornò a casa e un caro sonno lo avvolse.

Il giorno dopo, quando si diresse a lavoro, non era più spento, stanco, inerte e addormentato nelle abitudini; dentro di lui vi era una nuova attività, un nuovo fermento, nuove emozioni. Aveva come la sensazione che la città non fosse più tutto il suo mondo, sentiva che non era più chiuso nella città; percepiva che la realtà per lui non era più sola quello della sua città; vi era altro, vi era "l'altro mondo". E la città non gli sembrava più qualcosa di inevitabile, immutabile, imperituro; cominciava a capire i perché della metropoli, cominciava a capire l'energia e le cause che facevano scaturire i turbini boccioniani; e le cause erano quelle che aveva detto la ragazza del bosco: il potere, la volontà di schiavizzare e di farsi asservire, l'allontanamento e la separazione dalla vita, l'aver dimenticato il mistero dell'esistenza. Notava per la prima volta come gli uomini si dirigessero freneticamente e nervosamente a lavoro, notava per la prima volta il rombo ed il chiasso dei veicoli e dei motori e li comparava con la quiete, col silenzio del bosco, dell'altro mondo. Entrò nella torre dove stava il suo posto di lavoro. Torre alta, vetrata, zeppa di uomini eppur così poco umana, così asettica. Si sedette alla sua postazione di lavoro. Non riusciva più a lavorare come gli altri giorni, dimentico di sé stesso, immolando le sue ore al lavoro. Tentava di guardare il mondo fuori, ma non era possibile a causa delle vetrate che facevano apparire l'esterno come un piatto azzurro. Pensò al mondo fuori, al bosco, alla ragazza che lo salutavano da fuori, che lo aspettavano mentre lui era lì a sprecare il suo tempo, a chiudersi il cuore ed a riempirsi di vuoto, di violenza e di nervoso. I suoi colleghi gli apparivano come pigri, assopiti, privi di qualunque vitalità ed ormai abituati alla schiavitù, abituati a sacrificare tutta la loro giornata. Sacrificare tutta la giornata per cosa? Per il lavoro, ed a cosa serviva quel lavoro? Spesso nell'orario di lavoro non vi era nulla da fare e di certo col suo lavoro non produceva niente di utile... Produceva carte, documenti, cose burocratiche e noiose, nulla che servisse per la vita, per quella vita che aveva appena iniziato a conoscere. Il suo lavoro serviva tutt'al più a far accrescere le città, il potere, il sistema. Non pensava ad altro che a quel bosco e a quella ragazza.

Arrivò il tramonto, poi il crepuscolo e Marco uscì. Arrivò all'entrata del bosco, percorse il sentiero e si ritrovò di nuovo fra la natura. Guardò gli alberi, l'erba, i fiori, tutto gli riempiva gli occhi di meraviglia e gli faceva apparire un lieve sorriso sul volto, il percepire il tutto e la propria unione con esso gli faceva provare una gioia, la gioia dell'essere. Poi arrivò la ragazza.

"Ciao Marco"

"Ciao"

" Sei tornato vedo"

"Sì"

"Perché"

"Perché ho scoperto il bosco; quando lo vedo, quando sono dentro di lui mi sento così bene..."

"Ti capisco, anche per me è così; io penso che sia perché vediamo la meraviglia dell'esistente; vedi, io penso che ogni cosa, questi alberi, io, te, siamo fatti di una sostanza, la sostanza dell'esistenza; è questa sostanza è colma di meraviglia, di gioia, di stupore, di mistero; è una festa, una celebrazione, un banchetto; è viva, si muove, è misteriosa perché è così profonda, così insondabile e imponderabile e immisurabile che ci si può soltanto perdere dentro, che si può soltanto viverla".

"perché esiste questa sostanza dell'esistenza?"

"Non lo so, Marco, forse perché esiste il non essere, e quindi per la legge degli opposti esiste anche l'essere. È come il non essere è nulla, assenza, l'essere è movimento, gioia. È come un banchetto che si appoggia sul nulla, sul non essere"

Marco guardava la ragazza, i suoi movimenti, le sue espressioni, la cadenza della sua voce innocente, e il suo cuore si riempiva di gioia. Rimaneva stupito dalla profondità della ragazza.

" se ti piace il bosco, allora possiamo farci un giro, così ti faccio vedere alcune cose"

I due camminarono per gli anfratti del bosco

"Questo è il patriarca, l'albero più antico del bosco... si dice che instilli consigli ed infonda la sua saggezza nel cuore di chi vi dorme vicino"

"Questi sono gli abeti che tentano di alzarsi sempre più, fino a toccare il cielo"

"Si dice che il cuore di chi si immerga nelle acque di questo fiume sia riempito di amore"

" Si narra che questa roccia la notte rida, per questo molti hanno l'usanza di toccarla"

"Qua vi è il formicaio, la il nido degli uccelli"

La ragazza raccontò favole e racconti riguardo al bosco. Quello che prima a Marco pareva un qualcosa di freddo, di morto, di separato da lui ora prendeva vita, si animava, un insieme di forze, impulsi , tensioni ed aneliti si muovevano in esso... La ragazza camminava veloce e quasi piroettava leggera fra un albero e l'altro.

Nel frattempo, però, era giunta la notte. Tutto era buio, non vi erano le luci dei fanali né quelle dei lampioni. Marco non sapeva come tornare a casa e non ne aveva voglia.

" io dormo nel bosco, se vuoi puoi dormire anche tu; non vi sono animali pericolosi, sono stati tutti uccisi dagli uomini o sono scappati"

I due si stesero sull'erba, avvolti in una coperta grezza. Il cielo sopra di loro era pieno di stelle. Marco guardò il cielo, poi guardò il volto della ragazza, appena illuminato dalla luce lunare e stellare. Anche in lei vi era la meraviglia, la meraviglia dell'esistenza. Marco pensò che nella ragazza la meraviglia e lo stupore dell'universo si esprimessero in modo sublime, potente. In lei vi era la bellezza dei fiori, la bellezza delle fonti, quella del cielo notturno, quella della luna. In lei vi era l'energia vitale e l'amore che pervadevano il mondo. Faceva freddo, si abbracciarono. Il corpo della ragazza era magro, Marco le sfiorò il volto freddo, che pareva fatto di roccia lunare, le accarezzò i capelli. Lei lo guardava con due occhi profondi, felici e timidi.

Ritornò il sole. Marco non aveva messo alcuna sveglia, così si svegliò in ritardo. Corse a lavoro, senza la solita rabbia che aveva quando era in ritardo per andare a lavoro. Anzi, era felice, quel ritardo era il frutto della sua libertà, era il frutto del suo non essere più una macchina, regolata. Quando arrivò, il capo lo sgridò ed alcuni notarono come fosse tutto scompigliato e non adeguatamente preparato per il lavoro. Ma Marco non si rammaricava di ciò, anzi era felice di essere scompigliato. Aspettava solo la sera. Durante l'orario di lavoro aveva cominciato a leggere un libro che parlava della vita di un uomo saggio, che infondeva il suo cuore di gioia. Arrivò il tramonto, andò nel bosco, dormì ancora con la ragazza.

Continuò in questo modo per molto. Andava a lavoro sempre in ritardo, sempre più scompigliato. Oramai aveva una lunga barba. Il capo lo continuava a sgridare. Ma Marco non se ne curava. Nel bosco si era messo a costruire un piccolo rifugio con la legna, per poter resistere ai freddi ed alle intemperie; aveva cominciato anche, insieme alla ragazza, a coltivare un piccolo orto per il suo sostentamento.

Un giorno il capo disse a Marco che era licenziato. Marco non ne fu scosso; d'altronde, aveva in programma di licenziarsi lui stesso. Così andò a vivere nel bosco con la ragazza nella casetta che aveva costruito, e fu felice.

Ora Marco è più vecchio, ha diversi figli e ama ancora quella ragazza; intorno a lui vi sono molti amici.

Tutti insieme ridono, si divertono, riflettono, gioiscono della meraviglia dell'esistenza e si immergono negli abissi del mistero.

FINE.

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